Non vi sono dubbi sul fatto che stiamo vivendo un periodo molto particolare; particolare per tanti motivi.
I motivi
dipendono dalla situazione di ogni singolo individuo.
Una delle
cose che più mi rammarica, a parte il problema stesso, è vedere diverse persone,
ora più che mai, chiudersi dentro il punto di vista che si sono
fatte rispetto al problema; manca il “mettersi nei panni dell'altro",
metafora che rappresenta la distanza empatica.
L'empatia è la capacità organismica di
sentire quello che
"passa"
intenzionalmente, a livello emotivo, nell'altro organismo
con cui
siamo in relazione. Il passaggio empatico funzionale
avviene
ricordandosi - e non dimenticandosi - di se stessi,
altrimenti
si cadrebbe nella confluenza che non lascia spazio
relazionale.
La
relazione che si instaura con l'altro non è esclusivamente e
necessariamente
intima, ma anche, semplicemente, attentiva,
tale cioè
da permettermi di focalizzarmi su ciò a cui porto
attenzione.
L'attenzione può essere rivolta non solo attraverso
il contatto
oculare o
fisico, essa può essere prestata, infatti, nonostante
distanze
concretamente rilevanti. Ad esempio, oggi, grazie alla
tecnologia,
possiamo portare attenzione, quindi entrare in
relazione,
anche con persone o organismi molto lontani
fisicamente
da noi o, facilmente, con il pensiero e
l'immaginazione.
Per il mio
punto di vista, rispetto al fatto che, la nostra capacità
empatica
stia sempre più introiettandosi nell'assolutismo
individuale,
la causa va rintracciata nella scarsa attitudine a
stare con
le nostre emozioni.
Mi spiego
meglio.
Alle
emozioni che proviamo corrispondono reazioni biologiche
ed ormonali
che spesso non sappiamo come gestire.
Consideriamo
questa situazione di emergenza in cui rischiamo
di essere
invasi dalla paura:
il nostro organismo attiva
l'adrenalina
(ADH) - l'ormone che trattiene i liquidi utili alla
sopravvivenza
come riserva essenziale organismica - e fa
aumentare
sia il battito cardiaco che l'attenzione generalizzata
per
"tenere d'occhio" il pericolo e trovare rapidamente una via
di fuga; si
alzano inoltre frequenza e capacità respiratoria, per
portare più
ossigeno, quindi energia al corpo. Queste reazioni
fisiologiche
sono tutte funzionali al comandamento “fuga/
attacco”
che si attiva di fronte al pericolo. Il battito cardiaco, in
particolare,
è essenziale per portare sangue, quindi ossigeno,
alle zone
periferiche del corpo, gambe e braccia, arti utili a
“combattere
o fuggire”.
Notiamo
dunque che la paura, di per sé, è uno degli "strumenti" più potenti che abbiamo per sopravvivere. Quando però un
pericolo è
molto più grande di noi, oppure non lo riconosciamo
nella sua
essenza, ci sentiamo impotenti. Per esempio in questa situazione in cui il
pericolo sembra un “fantasma” che si aggira fra di noi.
L'impotenza
può condurci verso uno stato di sottomissione che
si traduce
in immobilità. Si parla cioè di paura introiettata, non
espressa,
in cui l'organismo si trova in confusione perché ha,
da una
parte, il messaggio dell'ADH che gli dice di muoversi
(emozione etim.
dal lat. emovère, ex = fuori + movere =
muovere) e,
dall’altro lato, la mente che, invece, gli dice di stare
fermo non
riconoscendo o sopravvalutando il pericolo stesso.
Da qui la
classica manifestazione della paura che ci blocca in
un tremore,
interno o manifesto, disfunzionale sia alla
situazione
esterna, per attuare “fuga/attacco”, sia interna con la
conseguente
somatizzazione delle tensioni.
Per tornare
alla mancanza di empatia come problema sociale del momento, rispetto alla gestione della paura, posso dire che, un altro meccanismo che si innesca, quando un'emozione è
molto forte
o poco gestita, è quello di attivazione della rabbia.
Essa è,
ovviamente, funzionale all'organismo per difendere il
proprio
"territorio" e tutto ciò che viene considerato tale, ma può
intervenire
anche come "anestetico" delle altre emozioni; per
esempio
della paura. Se sentiamo rabbia, la paura non la
avvertiamo.
Anestetizzandoci, quindi, la rabbia ci impedisce di
sentire
quello che sente l'altro e, non rispettandolo, inizia la
conflittualità
relazionale.
Alcuni
allora si chiudono nella loro "verità assoluta" e farebbero
qualsiasi
cosa pur di imporla all'altro, infrangendo il principio
alla base
dell'umanità: l'armonia fra gli individui.
“Non sono
d’accordo con quello che dici, ma darei la vita
perché tu
possa dirlo”
Evelyn
Beatrice Hall
Confliggere
fra di noi, senza cercare un confronto, è il peggiore
degli
scenari che si possano vedere; in situazioni delicate come
questa,
ancora di più. Trasformare il contrasto in occasione di
scambio,
invece, ci aiuta a crescere, a migliorarci, a conoscere
quello che
non sappiamo e a valutare se, quindi, può interessarci
oppure no.
Tutto ciò,
mi ripeto, è, ancor più del solito, offuscata dalla paura e dalla rabbia non
espresse.
Per fortuna
non per tutti è così.
In
proposito, vorrei accennare al concetto di amore incondizionato.
Esso altro
non è che un paradosso. Sebbene molti lo interpretino
come “un dare senza ricevere”, un mero buonismo, esso è, piuttosto un “dare
ricevendo nell'immediato”, un sano amor proprio. Elargendo amore, per esempio, con
un gesto di comprensione, con una parola gentile, con un sorriso, con il
rispetto dell’opinione altrui, verso ciò che mi piace, ovviamente non facendo
finta, pervengo facilmente all’essenza del concetto di “incondizionato” e posso esercitarmi su questo.
Però è
molto difficile fare altrettanto nei confronti di ciò che mi aggredisce,
situazione per cui mi trovo ad attivare la rabbia funzionale come difesa della
mia persona, quindi è necessario che mi difenda.
L'aria che
respiro è la stessa che tutti ci troviamo a respirare, e
quando c'è
amorevolezza nelle relazioni è un bene per tutti.
Pertanto se
do amore, io in primis, lo vivo a livello organismico
e quando
l'altro lo recepisce ne traiamo vantaggio entrambi,
perché il
clima viene amplificato. L’amore non recepito, al
contrario,
tende a farmi "girare i tacchi" verso ciò che mi rispetta
e mi piace
di più. A livello pratico, se do una carezza o uno
schiaffo a
una persona, con altissima probabilità, la sua reazione sarà differente nei
nostri confronti. Ripeto probabilmente perché se sono sull'aspettativa secondo
cui quello che do deve tornarmi
indietro,
posso cadere nella delusione. E’ molto probabile che la
persona
empatica, anche minimamente, avverta la pretesa di
ricevere e,
per difesa, si allontani o reagisca in modo contrario.
A nessuno
di noi fa piacere, o perlomeno a pochi, relazionarsi
con
qualcuno che ci mendica qualcosa.
Se, in
questo clima emergenziale, aggredisco il prossimo è
molto
probabile che lui si difenda aggredendomi a sua volta e io
vivrò
inevitabilmente quella realtà in maniera ancora più tesa.
Se qualcuno
mi aggredisce è lecito difendersi, anzi, doveroso,
tuttavia se
trovo una forma espressiva è più vantaggioso e
funzionale
per me.
L'espressione delle emozioni è il punto
fondamentale che ci
tutela sia
dall'"ingoiarle", quindi subirle organismicamente, siadal
"vomitarle" sull'altro. L’espressione salva, tutelandoci, noi stessi e gli altri.
Un altro
aspetto che vorrei trattare, visto che lavoro anche con i
sistemi, da
quelli familiari a quelli sociali, è il tema delle forme
pensiero o “egregore”. Esse non sono
nient'altro che
organizzazioni
di pensiero e di relazione più grandi. Se il
sistema
familiare, che tutti noi conosciamo, lo percepiamo come
condizionante
della nostra vita, l'egregora è un sistema che
include più
individui e quindi possiamo esserne ancora più condizionati.
Noi, come
specie Homo sapiens sapiens, siamo comunque animali e per questo tendiamo, fra le tante
cose, verso il senso di appartenenza. Nel senso che, tendiamo a cercare ad ogni
costo di sentirci appartenenti ad un gruppo. Per esempio, come dicevo prima, ad
un sistema familiare o sociale, ad un pensiero o altro.
Se da un
lato questo ci aiuta a sopperire alle difficoltà che la vita ci presenta,
perché se in gruppo siamo più forti e abbiamo più risorse, dall’altro ci può
limitare nel pensiero individuale e nel libero arbitrio. Rendendoci appunto
degli “automi” senza un pensiero individuale, creativo, accettando, in alcuni
casi, quasi qualsiasi cosa che il gruppo, di cui vogliamo appartenere ci
propone. La paura dell’esclusione è una delle più forti che subiamo nella vita.
Il senso di solitudine, per alcune persone è peggio del senso di morte. Esempio pratico del risvolto
della “medaglia” di questo effetto è il branco che maltratta un'altra persona
più debole, in cui anche quelle persone che sarebbero moralmente contrari a
farlo, lo fanno per sentirsi parte di quel gruppo e non vivere il senso di
solitudine o noia. Ovviamente è un esempio estremo, utile solo per capire bene
il concetto.
Questo
avviene anche nella semplice coppia, in cui notiamo che se il senso di
appartenenza supera l’amore per l’altra persona, si sfocia nella possessività.
Più proviamo a possedere qualcuno, più la relazione diventa ossessiva e con
poco spazio di scambio, più anche l’altro tende a scappare per difendere il
proprio spazio vitale, ma se il senso di appartenenza è troppo basso, la
relazione si perde. Per questo usiamo l’aggettivo possessivo, mio, quando ci
riferiamo a parlare di una persona per noi intima. Quindi notiamo che, niente
di per se è negativo o positivo, ma conta che "uso" ne faccio.
Importantissimo è l’equilibrio.
Queste
strutture sistemiche, possono essere organizzate in modo funzionale o
disfunzionale, dipende dal clima che si "respira" all’interno, basato
su regole esplicite e implicite del sistema stesso.
Vi sarà
sicuramente capitato di entrare in una casa e sentire
che
l’ambiente non fosse dei migliori o che, al contrario,
presentasse
una situazione molto gradevole ed accogliente. La
percezione
riflette le regole implicite del sistema. Se uno di essi si fonda sulla paura
non canalizzata, per esempio, quello trasuderà e ci renderà poco riflessivi e
aperti a pensieri diversi, anche se logici, diversi dal pericolo che non ancora
riusciamo ad oggettivare. Perché, come dicevo prima, la paura ci limita nel
portare l’attenzione, in modo quasi costante, solo su quello che percepiamo
come pericolo concreto.
Identificandoci
in un sistema, piccolo o grande che sia, notiamo
che esso
non ha né spazio né tempo, tendiamo cioè a
respirarne
il clima e ad esserne condizionati anche se siamo
dall'altra
parte del mondo. Basta ascoltarsi rispetto alle
influenze
che la nostra famiglia ha su di noi.
Così come
il sistema ci condiziona, tuttavia è vero anche il
contrario:
ogni singolo partecipante ne è condizionante e, può
contribuire
a modificarne il clima facendone parte.
Possiamo
uscirne in qualsiasi momento, ma bisogna, come
prima cosa,
essere consapevoli del condizionamento e poi fare
una scelta
interna, pur vivendo nello stesso spazio e nello
stesso
tempo, rispettando gli altri nella loro scelta o non scelta
di stare in
quella determinata situazione emotiva e comportamentale.
Si parla di
quello che viviamo dentro di noi, perciò possiamo continuare a rispettare
quelle regole esplicite o implicite dell’ambiente, se siamo costretti ad
"abitarle", ma respirando internamente un altro clima.
Entrando
nello specifico delle paure di questo momento,
almeno
facendo alcuni esempi, c'è quella, più ovvia, del virus
stesso che
può farmi stare male o provocare addirittura la
morte. Essa
convive con altre paure: quella della solitudine data
dall'isolamento,
quella del "morire di fame" per le possibili
conseguenze
socio-economiche o ancora quella del sentirsi
"prigionieri",
e molte altre.
Per
riuscire a fronteggiarle, come accennavo prima, è
fondamentale
per prima cosa riconoscerle.
Se non sai
cosa temi, se non conosci il tuo "nemico", sarà
difficile
difenderti.
Proviamo ad
analizzare, rispetto alla contingenza, delle possibili paure per cui possiamo
fare qualcosa, anche nella nostra apparente o reale impotenza.
Se ho paura
del virus, ho paura probabilmente di stare male, di
morire o di
far star male o far morire un altra persona.
Andando più
in profondità, posso chiedermi in che modo temo
la malattia
o la morte. Esse ci accompagnano per tutta la nostra esistenza, se siamo nati,
possiamo ammalarci perché siamo vulnerabili e prima o poi moriremo. Questo è un
fatto. Se mi focalizzo solo su questo, la vita diventa insopportabilmente dura
perché non c'è più solo la paura di malattia e morte, che sono funzionali ad
adottare dei comportamenti che possano tutelarmi il più a lungo possibile su
questa Terra, ma subentra la paura di vivere.
Essa può
confluire in diversi distubi, ad esempio, in un disturbo molto diffuso,
l'ipocondria, per cui ogni minimo sintomo sulla malattia, tendiamo a farlo
nostro e ad amplificarlo.
La paura di
vivere gioca inoltre un ruolo fondamentale nel
mantenerci
entro la nostra "zona di comfort". Tutti noi ne
abbiamo,
almeno una volta, fatto esperienza. Non si tratta di
nient'altro
che della paura di fare esperienza di una determinata
situazione
che, vorrei affrontare nella vita ma, siccome sento o
credo di
non avere le risorse sufficienti, tendo a rimanere fermo
e limito la
mia esperienza.
Resto lì
dove tutto mi sembra "sicuro", ma dove non vivo ciò
che la vita
mi propone, bello o brutto che sia.
Sì; è vero
che l’efficacia per provare ad uscire da questa
dinamica
dipende dalle risorse che abbiamo, ma quello che ci
diciamo, o
quanto valore diamo a quello che ci dicono, ha un
peso
altrettanto importante.
Se tendiamo
a dare valore assoluto a tutto ciò che di
scoraggiante
ci diciamo o ci viene detto, non usciremo da
questa zona
apparentemente confortevole. Basterebbe
focalizzarsi
sul tasso di incidenti stradali per terrorizzarsi e non
prendere
più una macchina. Infatti qualcuno si fissa, ad
esempio, su
questo tema e non guida più. Per fortuna, per
azioni del
quotidiano, come usare un'auto, la maggior parte di
noi riesce
a dirsi qualcosa, più o meno consapevolmente, che ci
rassicuri
un minimo per guidare, ma con prudenza.
Essere
consapevoli che il pericolo c'è, essendo pronti a
prendersene
la responsabilità, ci aiuta a fronteggiarlo. Altrimenti
non faremmo
niente, ogni gesto porta con sé un pericolo.
E' insito
nella vita stessa, visto che siamo umani e non
immortali.
La vita ci
propone diversi tipi di esperienze.
Citando un
mio formatore, Paolo Quattrini, "non è importante
quello che
ci capita ma quello che ce ne facciamo", molte volte,
quello che
accade non lo scegliamo, ma quello che ce ne
possiamo
fare sì. Dipende dal nostro libero arbitrio. Nessuno
può dirti
cosa è meglio per te. Però tu puoi capire, grazie
all'empatia,
cosa è meglio per l'altro e rispettarlo. Puoi fare
tutto,
senza danneggiare nessuno.
Se non
accogliamo quello che ci capita, entriamo in
frustrazione;
ci difendiamo quindi evitando l'emozione che si
attiva, a
prescindere dalla nostra volontà, rispetto a quel
contesto
che si è generato, e finiamo con il subirla
organismicamente.
Non
scegliamo quali emozioni provare, si attivano per nostro vantaggio, ma è
fondamentale e muoverle.
La
situazione che stiamo vivendo è l'esempio calzante di zona
di comfort,
espressione emotiva e per imparare a stare con quello che c'è nel “qui ed
ora”.
In questo
“qui ed ora” la cosa più importante resta il rispetto di
tutti i
punti di vista, delle paure e di tutte le sue forme. Siamo,
per forza
di cose, costretti al pochissimo contatto fisico, per
alcuni alla
solitudine, per altri alla povertà (qualcuno non ha neanche una casa), per
altri ancora a relazioni disfunzionali con coinquilini non affini, nel dolore
della malattia sia del virus che altre e nel silenzio; qui, mi sento di dire,
che tutto può essere un'opportunità di crescita.
Immagino
che sia difficile comprenderlo, ma da ogni crisi nasce
un'opportunità
perché quando siamo comodi il nostro
organismo
non ha motivo di attingere alla creatività, alla
scoperta,
alla capacità di guardare oltre. "Condannati", come
specie, al miglioramento finiamo nella noia.
La storia è
piena di esempi in cui una grossa crisi ha portato ad
un
miglioramento della società stessa, grazie al cambiamento
di molti.
Ogni organismo vivente, tende per sua natura,
all'evoluzione
e al miglioramento, omeostasi.
Quindi
nella solitudine cosa posso fare che mi piace? Nella povertà cosa posso
cogliere che non ho? Con quelle persone con cui sono costretto a stare cosa posso imparare? Dal dolore o dalla
malattia
cosa colgo? Solo tu puoi risponderti.
“Cerca,
trova” (Giorgio Vasari).
Se
cerchiamo qualcosa forse la troviamo, altrimenti, l'attenzione
che è
limitata, ad un elemento alla volta, va solo dove è diretta
dalle
emozioni. La vita è una ricerca fuori e dentro di te.
Cosa
cercare lo decidi tu. Ia realzione, il contatto in ogni sua forma è sempre
stata la "cura" dell'"anima", ora è tempo di riflettere nel
nostro mondo interno, per ampliarlo.
“La vita non è una domanda che deve trovare una risposta ma una esperienza che deve essere vissuta” (Søren Kirkegaard)
Fabio Cieri (Psicologo, Psicoterapeuta)