sabato 6 marzo 2021

EROE ALLO SPECCHIO: L’ANTI-EROE

Un tempo ci insegnavano ad essere eroi. Nell’antica Grecia, per esempio, si viveva la vita in ogni suo attimo, valorizzando la condizione di mortali in contrapposizione agli dei che, invece, non potevano godere di questo vantaggio esistenziale. Sembra assurdo che, da questo punto di vista, si enfatizzi l’attenzione proprio alla morte. Nelle culture centro sud americane, la morte veniva considerata “la consigliera” per antonomasia, da avere sempre al proprio fianco; per noi, al contrario, si tratta della condizione che tutti vorremmo notoriamente evitare, che cerchiamo di scacciare, addirittura, dai nostri pensieri. Il solo nominarla ci spaventa, ci indigna. Allora la censuriamo da ogni ambito della nostra vita, dai dialoghi, dai pensieri. Proprio questo atteggiamento, tuttavia, lascia che la paura di essa stia sempre con noi, condizionando la qualità della vita stessa. E’ come se, quindi, paradossalmente, vivessimo una vita sempre in tensione fra quello che facciamo (o possiamo fare) e questa paura costante che ci accompagna in ogni esperienza, o quasi, non più come consigliera, amica, ma come fantasma terrifico. Non è facile trovare l’accordo giusto che medi fra le polarità interne, facendo risuonare la nostra vita grazie all’armonizzazione più congeniale delle parti. A titolo esemplificativo si guardi ad una condizione facilmente verificabile in cui risultano compresenti diverse istanze: la scelta di fare o non fare e la paura della morte – che diventa quindi contraddizione del fare stesso. Proviamo ad immaginare di abbracciare qualcuno ma con l’ansia addosso, come se questo gesto di potenziale piacere non sia mai veramente attraversato in tutta la sua bellezza. 

 In questo esempio dell’abbraccio sono connesse tante paure; essere rifiutati, essere trattenuti troppo, sentire eccitazione non congrua alla persona che abbracciamo… d’altra parte, non agendo potremmo: allontanarci dall’altro, essere giudicati anaffettivi, o semplicemente non essere accoglienti… sono solo alcune delle paure, per sottolineare che i “pericoli” sono presenti in ogni azione o non azione della vita.

A questo punto il problema principale del nostro vivere è il non permetterci proprio di fare esperienza o gran parte di quelle esperienze potenziali che possiamo desiderare. Questo accade perché è, come se, il solo pensiero di vivere un pericolo ci bloccasse e quindi, di reazione al pericolo, restiamo in quella zona cosiddetta di, apparente, conforto. Ci sembra confortevole e confortante stare fermi, chiuderci in un bozzolo dall’illusorio carattere protettivo, in cui tutto ci sembra più sicuro. 

 Certo, se oggi ci vedessero proprio quegli eroi di un tempo… 

Il sapore della vita si sostanziava, per loro, proprio nell’affrontare la potenziale morte – intesa sia in senso biologico come cessazione del vivere, sia narcisisticamente, come morte della nostra immagine creata con molta cura e attenzione (il “perdere la faccia” per intenderci). Gli dei, condannati all’immortalità, invidiavano proprio l’aspetto di mortalità agli umani, risultavano dunque deprivati di una condizione che può dare molta forza alla vita, all’attimo, al presente. Gli immortali, tristemente consapevoli della loro condizione, si crogiolano in una vita senza tempo, dove le esperienze perdono il loro sapore e si diluiscono nel tempo stesso. I mortali, all’opposto, per secoli hanno nutrito l’atteggiamento al contrario: il chiudersi in un apparente guscio protettivo, come tentativo e prova di immortalità. Ecco che da questo sostrato si sostanzia e prende vita l’anti- eroe. L’anti-archetipo trova la sua forza nell’illusione di diventare degli dei, proprio in quell’aspetto che loro stessi ripudiavano e per il quale si sentivano condannati. Abbiamo letteralmente perso il senso della vita. In altre parole, perdendo la capacità di stare nella difficoltà in ogni sua forma: dolore, sofferenza, piacere, collera… perdiamo l’attitudine alla vita. Stare nella difficoltà vuol dire evolversi, crescere, migliorarsi, che è proprio quella condizione per cui invece noi umani siamo condannati per natura biologica: il miglioramento. Non può esserci miglioramento se non si passa per la difficoltà. L’apprendimento è strutturato sull’aggiustamento dell’errore. Avete mai imparato a fare qualcosa senza sbagliare? 

Quindi secoli e secoli trascorsi a proteggerci dal dolore fisico e soprattutto narcisistico, che ovviamente è di per sé una buona cosa: va bene tutelarsi dai pericoli che ci circondano, ma, anche qui, come per qualsiasi altra cosa, il troppo diventa deleterio. Ogni azione della vita porta con sé un potenziale pericolo di varia natura; qualsiasi azione, anche la più banale. Paradossalmente, però, non ci rendiamo facilmente conto che anche la non azione porta eventuali pericoli. Non c’è scampo alla morte, e, mi ripeto, in ogni sua forma. Oggi, in particolar modo, la nostra società rispecchia perfettamente la nostra condizione interna di totale impreparazione alla morte e, quindi, alla vita. Per esempio, riflettiamo su questo: usufruiamo continuamente della tecnologia che ci dà innumerevoli vantaggi, ma, quando ne abusiamo e la utilizziamo come rifugio di proiezione identificativa cosa succede? Mi colpiva e mi colpisce molto vivere e vedere vivere immagini, scene di convivialità in cui molte delle persone presenti, in possibile relazione fra loro, invece erano in relazione ad uno schermo interattivo; è vero che lo stesso, potenzialmente, ci connette con molte più persone contemporaneamente, ma in una modalità mascherata, apparentemente tutelante. 

La massima espressione archetipica dell’anti-eroe, si è raggiunta dunque proprio qui, ora. Siamo riusciti a non vivere più per paura di morire. Quello che è il senso della vita per l’eroe, oggi non esiste più. Siamo in una grande zona di confort in cui il potenziale “ammalarsi” diventa l’alibi per non fare nulla (o molto poco), anche se, come vediamo da tempo, nella maggior parte dei casi, possiamo guarire. Solo una condizione ci può salvare in questo caso: il riattingere all’archetipo dell’eroe, come lo chiamerebbe Jung, prendendoci la piena responsabilità delle nostre scelte. Cosa difficile di questi tempi in cui si delega tutto agli esperti di ogni settore; come se stessimo diventando sempre più specializzandi a discapito però “dell’insieme”. La visione olistica è sempre più lontana. Di conseguenza la capacità intellettiva umana comincia a decadere, visto che si sviluppa proprio sulla straordinaria potenzialità di connettere varie cose, le informazioni, diverse visioni del mondo - Sono bravissimo a fare una cosa ma non so nulla, o molto poco, del resto. Se mi azzardo a riflettere o ad esprimere un parere su qualcosa che non mi compete, sono richiamato all’“ordine”. 

Quindi “responsabilità”… che brutta parola: ci ricorda le pene da pagare al posto di… meglio che se la addossi qualcun altro. Non a caso i ruoli di responsabilità sono ben retribuiti nella nostra società, o almeno dovrebbero, perché implicano il pagare le conseguenze dei potenziali errori di quelle scelte. Ma vuoi proprio che la tua vita sia in mani di altri? Fra tutte le cose, il libero arbitrio è ridotto all’osso, si può dire di essere quasi schiavi. L’anti- eroe. Vigliaccamente ripiegati su noi stessi, sperando che la vita duri il più a lungo possibile, a prescindere dalla condizione. 

Mi immagino lo stato emotivo di un cavallo con un cappio al collo chiuso in una stalla “sicura” e quella di un altro che corre verso campi liberi, pieni di “pericoli”. Allora diamo più valore alla quantità potenziale della vita o alla sua qualità? La risposta non è più abbastanza scontata in una società in cui chi muore è visto come un perdente. E’ vero che chi muore perde tutto ciò che possiede nella vita, dalle cose materiali agli affetti, ma è qualcosa che prima o poi perderà comunque; non renderci conto di questo ci porta nell’illusione dell’immortalità che potrebbe ridurci a vivere una magra vita “sicura” da “schiavi” piuttosto che una vita piena di “pericoli” da “liberi”. Proprio i pericoli rendono interessante la corsa di quel cavallo che si prende la responsabilità di attraversare il suo giorno di libertà, nella sua interezza. Esso è consapevole che quel giorno di libertà potrebbe terminare, da un momento all’altro, pertanto lo vive col piacere di assaporarne la sua estemporaneità e non la sua eternità. Ugualmente esemplificativo è il piacere di quando assaggio il gusto di un gelato; le papille gustative lo assaporano proprio nella sua precarietà, nel fatto stesso che finisce. Posso provare piacere a ricercarlo o a lasciarlo andare. Se quel gusto durasse in eterno sarebbe solo uno stucchevole sapore dolce, persistente, senza tempo. 

Fabio Cieri (Psicologo, Psicoterapeuta)