sabato 6 marzo 2021

EROE ALLO SPECCHIO: L’ANTI-EROE

Un tempo ci insegnavano ad essere eroi. Nell’antica Grecia, per esempio, si viveva la vita in ogni suo attimo, valorizzando la condizione di mortali in contrapposizione agli dei che, invece, non potevano godere di questo vantaggio esistenziale. Sembra assurdo che, da questo punto di vista, si enfatizzi l’attenzione proprio alla morte. Nelle culture centro sud americane, la morte veniva considerata “la consigliera” per antonomasia, da avere sempre al proprio fianco; per noi, al contrario, si tratta della condizione che tutti vorremmo notoriamente evitare, che cerchiamo di scacciare, addirittura, dai nostri pensieri. Il solo nominarla ci spaventa, ci indigna. Allora la censuriamo da ogni ambito della nostra vita, dai dialoghi, dai pensieri. Proprio questo atteggiamento, tuttavia, lascia che la paura di essa stia sempre con noi, condizionando la qualità della vita stessa. E’ come se, quindi, paradossalmente, vivessimo una vita sempre in tensione fra quello che facciamo (o possiamo fare) e questa paura costante che ci accompagna in ogni esperienza, o quasi, non più come consigliera, amica, ma come fantasma terrifico. Non è facile trovare l’accordo giusto che medi fra le polarità interne, facendo risuonare la nostra vita grazie all’armonizzazione più congeniale delle parti. A titolo esemplificativo si guardi ad una condizione facilmente verificabile in cui risultano compresenti diverse istanze: la scelta di fare o non fare e la paura della morte – che diventa quindi contraddizione del fare stesso. Proviamo ad immaginare di abbracciare qualcuno ma con l’ansia addosso, come se questo gesto di potenziale piacere non sia mai veramente attraversato in tutta la sua bellezza. 

 In questo esempio dell’abbraccio sono connesse tante paure; essere rifiutati, essere trattenuti troppo, sentire eccitazione non congrua alla persona che abbracciamo… d’altra parte, non agendo potremmo: allontanarci dall’altro, essere giudicati anaffettivi, o semplicemente non essere accoglienti… sono solo alcune delle paure, per sottolineare che i “pericoli” sono presenti in ogni azione o non azione della vita.

A questo punto il problema principale del nostro vivere è il non permetterci proprio di fare esperienza o gran parte di quelle esperienze potenziali che possiamo desiderare. Questo accade perché è, come se, il solo pensiero di vivere un pericolo ci bloccasse e quindi, di reazione al pericolo, restiamo in quella zona cosiddetta di, apparente, conforto. Ci sembra confortevole e confortante stare fermi, chiuderci in un bozzolo dall’illusorio carattere protettivo, in cui tutto ci sembra più sicuro. 

 Certo, se oggi ci vedessero proprio quegli eroi di un tempo… 

Il sapore della vita si sostanziava, per loro, proprio nell’affrontare la potenziale morte – intesa sia in senso biologico come cessazione del vivere, sia narcisisticamente, come morte della nostra immagine creata con molta cura e attenzione (il “perdere la faccia” per intenderci). Gli dei, condannati all’immortalità, invidiavano proprio l’aspetto di mortalità agli umani, risultavano dunque deprivati di una condizione che può dare molta forza alla vita, all’attimo, al presente. Gli immortali, tristemente consapevoli della loro condizione, si crogiolano in una vita senza tempo, dove le esperienze perdono il loro sapore e si diluiscono nel tempo stesso. I mortali, all’opposto, per secoli hanno nutrito l’atteggiamento al contrario: il chiudersi in un apparente guscio protettivo, come tentativo e prova di immortalità. Ecco che da questo sostrato si sostanzia e prende vita l’anti- eroe. L’anti-archetipo trova la sua forza nell’illusione di diventare degli dei, proprio in quell’aspetto che loro stessi ripudiavano e per il quale si sentivano condannati. Abbiamo letteralmente perso il senso della vita. In altre parole, perdendo la capacità di stare nella difficoltà in ogni sua forma: dolore, sofferenza, piacere, collera… perdiamo l’attitudine alla vita. Stare nella difficoltà vuol dire evolversi, crescere, migliorarsi, che è proprio quella condizione per cui invece noi umani siamo condannati per natura biologica: il miglioramento. Non può esserci miglioramento se non si passa per la difficoltà. L’apprendimento è strutturato sull’aggiustamento dell’errore. Avete mai imparato a fare qualcosa senza sbagliare? 

Quindi secoli e secoli trascorsi a proteggerci dal dolore fisico e soprattutto narcisistico, che ovviamente è di per sé una buona cosa: va bene tutelarsi dai pericoli che ci circondano, ma, anche qui, come per qualsiasi altra cosa, il troppo diventa deleterio. Ogni azione della vita porta con sé un potenziale pericolo di varia natura; qualsiasi azione, anche la più banale. Paradossalmente, però, non ci rendiamo facilmente conto che anche la non azione porta eventuali pericoli. Non c’è scampo alla morte, e, mi ripeto, in ogni sua forma. Oggi, in particolar modo, la nostra società rispecchia perfettamente la nostra condizione interna di totale impreparazione alla morte e, quindi, alla vita. Per esempio, riflettiamo su questo: usufruiamo continuamente della tecnologia che ci dà innumerevoli vantaggi, ma, quando ne abusiamo e la utilizziamo come rifugio di proiezione identificativa cosa succede? Mi colpiva e mi colpisce molto vivere e vedere vivere immagini, scene di convivialità in cui molte delle persone presenti, in possibile relazione fra loro, invece erano in relazione ad uno schermo interattivo; è vero che lo stesso, potenzialmente, ci connette con molte più persone contemporaneamente, ma in una modalità mascherata, apparentemente tutelante. 

La massima espressione archetipica dell’anti-eroe, si è raggiunta dunque proprio qui, ora. Siamo riusciti a non vivere più per paura di morire. Quello che è il senso della vita per l’eroe, oggi non esiste più. Siamo in una grande zona di confort in cui il potenziale “ammalarsi” diventa l’alibi per non fare nulla (o molto poco), anche se, come vediamo da tempo, nella maggior parte dei casi, possiamo guarire. Solo una condizione ci può salvare in questo caso: il riattingere all’archetipo dell’eroe, come lo chiamerebbe Jung, prendendoci la piena responsabilità delle nostre scelte. Cosa difficile di questi tempi in cui si delega tutto agli esperti di ogni settore; come se stessimo diventando sempre più specializzandi a discapito però “dell’insieme”. La visione olistica è sempre più lontana. Di conseguenza la capacità intellettiva umana comincia a decadere, visto che si sviluppa proprio sulla straordinaria potenzialità di connettere varie cose, le informazioni, diverse visioni del mondo - Sono bravissimo a fare una cosa ma non so nulla, o molto poco, del resto. Se mi azzardo a riflettere o ad esprimere un parere su qualcosa che non mi compete, sono richiamato all’“ordine”. 

Quindi “responsabilità”… che brutta parola: ci ricorda le pene da pagare al posto di… meglio che se la addossi qualcun altro. Non a caso i ruoli di responsabilità sono ben retribuiti nella nostra società, o almeno dovrebbero, perché implicano il pagare le conseguenze dei potenziali errori di quelle scelte. Ma vuoi proprio che la tua vita sia in mani di altri? Fra tutte le cose, il libero arbitrio è ridotto all’osso, si può dire di essere quasi schiavi. L’anti- eroe. Vigliaccamente ripiegati su noi stessi, sperando che la vita duri il più a lungo possibile, a prescindere dalla condizione. 

Mi immagino lo stato emotivo di un cavallo con un cappio al collo chiuso in una stalla “sicura” e quella di un altro che corre verso campi liberi, pieni di “pericoli”. Allora diamo più valore alla quantità potenziale della vita o alla sua qualità? La risposta non è più abbastanza scontata in una società in cui chi muore è visto come un perdente. E’ vero che chi muore perde tutto ciò che possiede nella vita, dalle cose materiali agli affetti, ma è qualcosa che prima o poi perderà comunque; non renderci conto di questo ci porta nell’illusione dell’immortalità che potrebbe ridurci a vivere una magra vita “sicura” da “schiavi” piuttosto che una vita piena di “pericoli” da “liberi”. Proprio i pericoli rendono interessante la corsa di quel cavallo che si prende la responsabilità di attraversare il suo giorno di libertà, nella sua interezza. Esso è consapevole che quel giorno di libertà potrebbe terminare, da un momento all’altro, pertanto lo vive col piacere di assaporarne la sua estemporaneità e non la sua eternità. Ugualmente esemplificativo è il piacere di quando assaggio il gusto di un gelato; le papille gustative lo assaporano proprio nella sua precarietà, nel fatto stesso che finisce. Posso provare piacere a ricercarlo o a lasciarlo andare. Se quel gusto durasse in eterno sarebbe solo uno stucchevole sapore dolce, persistente, senza tempo. 

Fabio Cieri (Psicologo, Psicoterapeuta)

martedì 14 aprile 2020

COMPLOTTISTI E "COMPLOTTARI"


Con il termine complottista si intende colui che tende a interpretare ogni evento come un complotto o parte di un complotto (intrigo rivolto copertamente a danno di enti o persone).
Il termine “complottaro” non esite sul vocabolario, l’ho preso in prestito dalla rete internet, da alcune persone che lo usano per sottolineare marcatamente il giudizio dispregiativo e accusatorio di quelli che considerano complottisti solo perché propongono una visione differente dalla loro. In questo articolo sfrutto, simpaticamente, questo termine per definire queste persone che sono l’antitesi dei complottisti. 

Se queste due visioni possiamo considerarle due polarità opposte, il complottista come colui che vede a tutti i costi un complotto anche lì dove non c’è alcun dato oggettivo per sostenerlo e il “complottaro” come colui che, anche di fronte a possibili dati obiettivi di un complotto o presunto tale, non vuole prestarci attenzione e accusa tutto il resto come delirante, allora notiamo che lo spazio, fra queste due visioni polarizzanti, diventa totalmente vuoto. Un vuoto che paradossalmente potrebbe essere alquanto fertile.
E’ come dire che fra il bianco e il nero non esista l’infinita gamma di colori centrali e le loro combinazioni.
Nella nostra società, in cui si predilige la logica aristotelica, una cosa può essere o giusta o sbagliata, quindi è abbastanza normale che ciò avvenga. In una logica dialettica, invece, in cui c’è una tesi e un’antitesi e si cerca una sintesi, le polarità estreme possono coesistere e dialogare, fra loro, per trovare un confronto costruttivo che possa portare a qualcosa di totalmente nuovo invece di uno scontro conflittuale e prevaricatorio.

Per entrare nel dettaglio della psicologia delle due polarità, complottisti e “complottari”, i primi, con molta probabilità, potrebbero presentare una struttura auto-supportante interna molto fragile che tende alla paranoia. Non essendo in grado di rassicurarsi e di fronteggiare le possibili difficoltà che la vita ci propone tendono a vedere un persecutore ovunque o quasi, come se nel loro mondo interno ci fosse un livello di paura troppo alto per sostenerlo.
Il “complottaro”, non da meno del complottista, alzando i muri alla logica, al buon senso, alla riflessione, in molti casi, pur essendo una persona di un buon livello culturale, mostra altrettanta fragilità interna con la differenza dell’uso di un meccanismo di difesa opposto al primo. Questo meccanismo di difesa tende alla non accettazione di un possibile pericolo anche se il soggetto lo “fiuta” perfettamente e lo porta a chiudersi in una “corazza” che lo difenda da qualsiasi possibile conferma che il pericolo possa esistere e si possa manifestare in ogni momento. Un po’ come illudersi che se un mostro fosse nella nostra stanza, chiudendo gli occhi, esso non esisterebbe più. Di solito questo accade proprio come in questo esempio, cioè quando il pericolo ci sembra o è molto più grande di noi e crediamo di non avere nessuna risorsa per fronteggiarlo. Quindi si passa dalla paura alla rabbia che si rivolta contro coloro che gli fanno notare che il “mostro”, purtroppo, potrebbe esistere e questa possibilità è proprio lì accanto a lui.
Possiamo immaginare una persona con gli occhi chiusi che grida: -“non c’è nessun mostro, non c’è nessun mostro”! 

Da questo possiamo notare che nessuna delle due posizioni è vantaggiosa per la persona che le esperisce, quindi, diventa fondamentale provare ad abitare il vuoto che c’è fra le due polarità. Per esempio con l’ascolto delle parti, il ragionamento logico e in particolare con l’ascolto emotivo, infatti le emozioni si attivano, a prescindere dalla nostra volontà, proprio per aiutarci a fronteggiare una specifica situazione.

Capisco che il tutto possa far credere che queste due condizioni umane del vedere complotti ovunque o di non vederne affatto possa far pensare che non ci sia molta intelligenza in tutto ciò, ma non è solo questa una probabile causa, la causa principale è l’incapacità di stare con le emozioni e in questo caso specifico con la paura.
Questo è un problema molto comune, proprio per questo è molto probabile che si possa cadere in una o l’altra visione delle cose con molta facilità.

Ovviamente le due condizioni possono anche essere strumentalizzate. Si può far finta di vedere complotti lì dove ci conviene inventarli, per varie ragioni, per esempio per trarne vantaggi economici o manipolare qualcuno. Si può essere complottari, invece, per insabbiare il complotto stesso che si stà organizzando.

La cosa più importante resta che ognuno ha il diritto di poter esprimere il suo punto di vista a prescindere dalla sua verità, fragilità o qualsiasi altra condizione. Se non c’è relazione finiamo nell’ignoranza più totale perché non conosciamo le altre visioni del mondo, l’intelligenza altro non è che la capacità di connettere le cose, ma se ce ne sono poche, risulta molto difficile connetterle.

Fabio Cieri (Psicologo, Psicoterapeuta)

venerdì 13 marzo 2020

Amore e odio al tempo del coronavirus



Non vi sono dubbi sul fatto che stiamo vivendo un periodo molto particolare; particolare per tanti motivi.
I motivi dipendono dalla situazione di ogni singolo individuo.

Una delle cose che più mi rammarica, a parte il problema stesso, è vedere diverse persone, ora più che mai, chiudersi dentro il punto di vista che si sono fatte rispetto al problema; manca il “mettersi nei panni dell'altro", metafora che rappresenta la distanza empatica.


L'empatia è la capacità organismica di sentire quello che
"passa" intenzionalmente, a livello emotivo, nell'altro organismo
con cui siamo in relazione. Il passaggio empatico funzionale
avviene ricordandosi - e non dimenticandosi - di se stessi,
altrimenti si cadrebbe nella confluenza che non lascia spazio
relazionale.
La relazione che si instaura con l'altro non è esclusivamente e
necessariamente intima, ma anche, semplicemente, attentiva,
tale cioè da permettermi di focalizzarmi su ciò a cui porto
attenzione.

L'attenzione può essere rivolta non solo attraverso il contatto
oculare o fisico, essa può essere prestata, infatti, nonostante
distanze concretamente rilevanti. Ad esempio, oggi, grazie alla
tecnologia, possiamo portare attenzione, quindi entrare in
relazione, anche con persone o organismi molto lontani
fisicamente da noi o, facilmente, con il pensiero e
l'immaginazione.
Per il mio punto di vista, rispetto al fatto che, la nostra capacità
empatica stia sempre più introiettandosi nell'assolutismo
individuale, la causa va rintracciata nella scarsa attitudine a
stare con le nostre emozioni.
Mi spiego meglio.
Alle emozioni che proviamo corrispondono reazioni biologiche
ed ormonali che spesso non sappiamo come gestire.

Consideriamo questa situazione di emergenza in cui rischiamo
di essere invasi dalla paura: il nostro organismo attiva
l'adrenalina (ADH) - l'ormone che trattiene i liquidi utili alla
sopravvivenza come riserva essenziale organismica - e fa
aumentare sia il battito cardiaco che l'attenzione generalizzata
per "tenere d'occhio" il pericolo e trovare rapidamente una via
di fuga; si alzano inoltre frequenza e capacità respiratoria, per
portare più ossigeno, quindi energia al corpo. Queste reazioni
fisiologiche sono tutte funzionali al comandamento “fuga/
attacco” che si attiva di fronte al pericolo. Il battito cardiaco, in
particolare, è essenziale per portare sangue, quindi ossigeno,
alle zone periferiche del corpo, gambe e braccia, arti utili a
“combattere o fuggire”.

Notiamo dunque che la paura, di per sé, è uno degli "strumenti" più potenti che abbiamo per sopravvivere. Quando però un
pericolo è molto più grande di noi, oppure non lo riconosciamo
nella sua essenza, ci sentiamo impotenti. Per esempio in questa situazione in cui il pericolo sembra un “fantasma” che si aggira fra di noi.
L'impotenza può condurci verso uno stato di sottomissione che
si traduce in immobilità. Si parla cioè di paura introiettata, non
espressa, in cui l'organismo si trova in confusione perché ha,
da una parte, il messaggio dell'ADH che gli dice di muoversi
(emozione etim. dal lat. emovère, ex = fuori + movere =
muovere) e, dall’altro lato, la mente che, invece, gli dice di stare
fermo non riconoscendo o sopravvalutando il pericolo stesso.
Da qui la classica manifestazione della paura che ci blocca in
un tremore, interno o manifesto, disfunzionale sia alla
situazione esterna, per attuare “fuga/attacco”, sia interna con la
conseguente somatizzazione delle tensioni.

Per tornare alla mancanza di empatia come problema sociale del momento, rispetto alla gestione della paura, posso dire che, un altro meccanismo che si innesca, quando un'emozione è
molto forte o poco gestita, è quello di attivazione della rabbia.
Essa è, ovviamente, funzionale all'organismo per difendere il
proprio "territorio" e tutto ciò che viene considerato tale, ma può
intervenire anche come "anestetico" delle altre emozioni; per
esempio della paura. Se sentiamo rabbia, la paura non la
avvertiamo. Anestetizzandoci, quindi, la rabbia ci impedisce di
sentire quello che sente l'altro e, non rispettandolo, inizia la
conflittualità relazionale.
Alcuni allora si chiudono nella loro "verità assoluta" e farebbero
qualsiasi cosa pur di imporla all'altro, infrangendo il principio
alla base dell'umanità: l'armonia fra gli individui.


“Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita
perché tu possa dirlo”

Evelyn Beatrice Hall


Confliggere fra di noi, senza cercare un confronto, è il peggiore
degli scenari che si possano vedere; in situazioni delicate come
questa, ancora di più. Trasformare il contrasto in occasione di
scambio, invece, ci aiuta a crescere, a migliorarci, a conoscere
quello che non sappiamo e a valutare se, quindi, può interessarci oppure no.
Tutto ciò, mi ripeto, è, ancor più del solito, offuscata dalla paura e dalla rabbia non espresse.
Per fortuna non per tutti è così.
In proposito, vorrei accennare al concetto di amore incondizionato.
Esso altro non è che un paradosso. Sebbene molti lo interpretino come “un dare senza ricevere”, un mero buonismo, esso è, piuttosto un “dare ricevendo nell'immediato”, un sano amor proprio. Elargendo amore, per esempio, con un gesto di comprensione, con una parola gentile, con un sorriso, con il rispetto dell’opinione altrui, verso ciò che mi piace, ovviamente non facendo finta, pervengo facilmente all’essenza del concetto di “incondizionato” e posso esercitarmi su questo. 
Però è molto difficile fare altrettanto nei confronti di ciò che mi aggredisce, situazione per cui mi trovo ad attivare la rabbia funzionale come difesa della mia persona, quindi è necessario che mi difenda.
L'aria che respiro è la stessa che tutti ci troviamo a respirare, e
quando c'è amorevolezza nelle relazioni è un bene per tutti.
Pertanto se do amore, io in primis, lo vivo a livello organismico
e quando l'altro lo recepisce ne traiamo vantaggio entrambi,
perché il clima viene amplificato. L’amore non recepito, al
contrario, tende a farmi "girare i tacchi" verso ciò che mi rispetta
e mi piace di più. A livello pratico, se do una carezza o uno
schiaffo a una persona, con altissima probabilità, la sua reazione sarà differente nei nostri confronti. Ripeto probabilmente perché se sono sull'aspettativa secondo cui quello che do deve tornarmi
indietro, posso cadere nella delusione. E’ molto probabile che la
persona empatica, anche minimamente, avverta la pretesa di
ricevere e, per difesa, si allontani o reagisca in modo contrario.
A nessuno di noi fa piacere, o perlomeno a pochi, relazionarsi
con qualcuno che ci mendica qualcosa.
Se, in questo clima emergenziale, aggredisco il prossimo è
molto probabile che lui si difenda aggredendomi a sua volta e io
vivrò inevitabilmente quella realtà in maniera ancora più tesa.
Se qualcuno mi aggredisce è lecito difendersi, anzi, doveroso,
tuttavia se trovo una forma espressiva è più vantaggioso e
funzionale per me.

L'espressione delle emozioni è il punto fondamentale che ci
tutela sia dall'"ingoiarle", quindi subirle organismicamente, siadal "vomitarle" sull'altro. L’espressione salva, tutelandoci, noi stessi e gli altri.

Un altro aspetto che vorrei trattare, visto che lavoro anche con i
sistemi, da quelli familiari a quelli sociali, è il tema delle forme
pensiero o “egregore”. Esse non sono nient'altro che
organizzazioni di pensiero e di relazione più grandi. Se il
sistema familiare, che tutti noi conosciamo, lo percepiamo come
condizionante della nostra vita, l'egregora è un sistema che
include più individui e quindi possiamo esserne ancora più condizionati.

Noi, come specie Homo sapiens sapiens, siamo comunque animali e per questo tendiamo, fra le tante cose, verso il senso di appartenenza. Nel senso che, tendiamo a cercare ad ogni costo di sentirci appartenenti ad un gruppo. Per esempio, come dicevo prima, ad un sistema familiare o sociale, ad un pensiero o altro.
Se da un lato questo ci aiuta a sopperire alle difficoltà che la vita ci presenta, perché se in gruppo siamo più forti e abbiamo più risorse, dall’altro ci può limitare nel pensiero individuale e nel libero arbitrio. Rendendoci appunto degli “automi” senza un pensiero individuale, creativo, accettando, in alcuni casi, quasi qualsiasi cosa che il gruppo, di cui vogliamo appartenere ci propone. La paura dell’esclusione è una delle più forti che subiamo nella vita. Il senso di solitudine, per alcune persone è peggio del senso di morte. Esempio pratico del risvolto della “medaglia” di questo effetto è il branco che maltratta un'altra persona più debole, in cui anche quelle persone che sarebbero moralmente contrari a farlo, lo fanno per sentirsi parte di quel gruppo e non vivere il senso di solitudine o noia. Ovviamente è un esempio estremo, utile solo per capire bene il concetto.

Questo avviene anche nella semplice coppia, in cui notiamo che se il senso di appartenenza supera l’amore per l’altra persona, si sfocia nella possessività. Più proviamo a possedere qualcuno, più la relazione diventa ossessiva e con poco spazio di scambio, più anche l’altro tende a scappare per difendere il proprio spazio vitale, ma se il senso di appartenenza è troppo basso, la relazione si perde. Per questo usiamo l’aggettivo possessivo, mio, quando ci riferiamo a parlare di una persona per noi intima. Quindi notiamo che, niente di per se è negativo o positivo, ma conta che "uso" ne faccio. Importantissimo è l’equilibrio. 

Queste strutture sistemiche, possono essere organizzate in modo funzionale o disfunzionale, dipende dal clima che si "respira" all’interno, basato su regole esplicite e implicite del sistema stesso.
Vi sarà sicuramente capitato di entrare in una casa e sentire
che l’ambiente non fosse dei migliori o che, al contrario,
presentasse una situazione molto gradevole ed accogliente. La
percezione riflette le regole implicite del sistema. Se uno di essi si fonda sulla paura non canalizzata, per esempio, quello trasuderà e ci renderà poco riflessivi e aperti a pensieri diversi, anche se logici, diversi dal pericolo che non ancora riusciamo ad oggettivare. Perché, come dicevo prima, la paura ci limita nel portare l’attenzione, in modo quasi costante, solo su quello che percepiamo come pericolo concreto. 
Identificandoci in un sistema, piccolo o grande che sia, notiamo
che esso non ha né spazio né tempo, tendiamo cioè a
respirarne il clima e ad esserne condizionati anche se siamo
dall'altra parte del mondo. Basta ascoltarsi rispetto alle
influenze che la nostra famiglia ha su di noi.
Così come il sistema ci condiziona, tuttavia è vero anche il
contrario: ogni singolo partecipante ne è condizionante e, può
contribuire a modificarne il clima facendone parte.
Possiamo uscirne in qualsiasi momento, ma bisogna, come
prima cosa, essere consapevoli del condizionamento e poi fare
una scelta interna, pur vivendo nello stesso spazio e nello
stesso tempo, rispettando gli altri nella loro scelta o non scelta
di stare in quella determinata situazione emotiva e comportamentale.
Si parla di quello che viviamo dentro di noi, perciò possiamo continuare a rispettare quelle regole esplicite o implicite dell’ambiente, se siamo costretti ad "abitarle", ma respirando internamente un altro clima.
 
Entrando nello specifico delle paure di questo momento,
almeno facendo alcuni esempi, c'è quella, più ovvia, del virus
stesso che può farmi stare male o provocare addirittura la
morte. Essa convive con altre paure: quella della solitudine data
dall'isolamento, quella del "morire di fame" per le possibili
conseguenze socio-economiche o ancora quella del sentirsi
"prigionieri", e molte altre.
Per riuscire a fronteggiarle, come accennavo prima, è
fondamentale per prima cosa riconoscerle.
Se non sai cosa temi, se non conosci il tuo "nemico", sarà
difficile difenderti. 
Proviamo ad analizzare, rispetto alla contingenza, delle possibili paure per cui possiamo fare qualcosa, anche nella nostra apparente o reale impotenza. 
Se ho paura del virus, ho paura probabilmente di stare male, di
morire o di far star male o far morire un altra persona.
Andando più in profondità, posso chiedermi in che modo temo
la malattia o la morte. Esse ci accompagnano per tutta la nostra esistenza, se siamo nati, possiamo ammalarci perché siamo vulnerabili e prima o poi moriremo. Questo è un fatto. Se mi focalizzo solo su questo, la vita diventa insopportabilmente dura perché non c'è più solo la paura di malattia e morte, che sono funzionali ad adottare dei comportamenti che possano tutelarmi il più a lungo possibile su questa Terra, ma subentra la paura di vivere.
Essa può confluire in diversi distubi, ad esempio, in un disturbo molto diffuso, l'ipocondria, per cui ogni minimo sintomo sulla malattia, tendiamo a farlo nostro e ad amplificarlo.
La paura di vivere gioca inoltre un ruolo fondamentale nel
mantenerci entro la nostra "zona di comfort". Tutti noi ne
abbiamo, almeno una volta, fatto esperienza. Non si tratta di
nient'altro che della paura di fare esperienza di una determinata
situazione che, vorrei affrontare nella vita ma, siccome sento o
credo di non avere le risorse sufficienti, tendo a rimanere fermo
e limito la mia esperienza.
Resto lì dove tutto mi sembra "sicuro", ma dove non vivo ciò
che la vita mi propone, bello o brutto che sia.
Sì; è vero che l’efficacia per provare ad uscire da questa
dinamica dipende dalle risorse che abbiamo, ma quello che ci
diciamo, o quanto valore diamo a quello che ci dicono, ha un
peso altrettanto importante.
Se tendiamo a dare valore assoluto a tutto ciò che di
scoraggiante ci diciamo o ci viene detto, non usciremo da
questa zona apparentemente confortevole. Basterebbe
focalizzarsi sul tasso di incidenti stradali per terrorizzarsi e non
prendere più una macchina. Infatti qualcuno si fissa, ad
esempio, su questo tema e non guida più. Per fortuna, per
azioni del quotidiano, come usare un'auto, la maggior parte di
noi riesce a dirsi qualcosa, più o meno consapevolmente, che ci
rassicuri un minimo per guidare, ma con prudenza.
Essere consapevoli che il pericolo c'è, essendo pronti a
prendersene la responsabilità, ci aiuta a fronteggiarlo. Altrimenti
non faremmo niente, ogni gesto porta con sé un pericolo.
E' insito nella vita stessa, visto che siamo umani e non
immortali.
La vita ci propone diversi tipi di esperienze.
Citando un mio formatore, Paolo Quattrini, "non è importante
quello che ci capita ma quello che ce ne facciamo", molte volte,
quello che accade non lo scegliamo, ma quello che ce ne
possiamo fare sì. Dipende dal nostro libero arbitrio. Nessuno
può dirti cosa è meglio per te. Però tu puoi capire, grazie
all'empatia, cosa è meglio per l'altro e rispettarlo. Puoi fare
tutto, senza danneggiare nessuno.
Se non accogliamo quello che ci capita, entriamo in
frustrazione; ci difendiamo quindi evitando l'emozione che si
attiva, a prescindere dalla nostra volontà, rispetto a quel
contesto che si è generato, e finiamo con il subirla
organismicamente. 
Non scegliamo quali emozioni provare, si attivano per nostro vantaggio, ma è fondamentale e muoverle.
La situazione che stiamo vivendo è l'esempio calzante di zona
di comfort, espressione emotiva e per imparare a stare con quello che c'è nel “qui ed ora”.
In questo “qui ed ora” la cosa più importante resta il rispetto di
tutti i punti di vista, delle paure e di tutte le sue forme. Siamo,
per forza di cose, costretti al pochissimo contatto fisico, per
alcuni alla solitudine, per altri alla povertà (qualcuno non ha neanche una casa), per altri ancora a relazioni disfunzionali con coinquilini non affini, nel dolore della malattia sia del virus che altre e nel silenzio; qui, mi sento di dire, che tutto può essere un'opportunità di crescita.
Immagino che sia difficile comprenderlo, ma da ogni crisi nasce
un'opportunità perché quando siamo comodi il nostro
organismo non ha motivo di attingere alla creatività, alla
scoperta, alla capacità di guardare oltre. "Condannati", come
specie, al miglioramento finiamo nella noia.
La storia è piena di esempi in cui una grossa crisi ha portato ad
un miglioramento della società stessa, grazie al cambiamento
di molti. Ogni organismo vivente, tende per sua natura,
all'evoluzione e al miglioramento, omeostasi. 
Quindi nella solitudine cosa posso fare che mi piace? Nella povertà cosa posso cogliere che non ho? Con quelle persone con cui sono costretto a stare cosa posso imparare? Dal dolore o dalla

malattia cosa colgo? Solo tu puoi risponderti.
“Cerca, trova” (Giorgio Vasari).
Se cerchiamo qualcosa forse la troviamo, altrimenti, l'attenzione
che è limitata, ad un elemento alla volta, va solo dove è diretta
dalle emozioni. La vita è una ricerca fuori e dentro di te.
Cosa cercare lo decidi tu. Ia realzione, il contatto in ogni sua forma è sempre stata la "cura" dell'"anima", ora è tempo di riflettere nel nostro mondo interno, per ampliarlo.

“La vita non è una domanda che deve trovare una risposta ma una esperienza che deve essere vissuta” (Søren Kirkegaard)


Fabio Cieri (Psicologo, Psicoterapeuta)

mercoledì 4 settembre 2019

Teatro. Odissea. Fabio Cieri


Conferenza Auto-ipnosi regressiva


FESTIVAL DELLA PSICOLOGIA (Pescara)


Costellazioni Familiari, del mondo interno, Oniriche

(Evento del venerdì 13, 2019. ore 18.30 a Vasto) 





"L'angoscia è la vertigine della libertà"
kierkegaard

Come esiste un ordine nel sistema stellare, così esiste un ordine in ogni sistema, da qui il termine costellazioni.
In ogni ordine sistemico, esiste una struttura fissa, che serve a mantenere vivo, il sistema stesso per la sua sopravvivenza.
Come esempio, possiamo prendere ordini sistemici tipo quello familiare, un sogno, l’ambiente lavorativo, una relazione sentimentale, il sistema intrapsichico (mondo interno), ecc...
Con sistema, intendiamo, un insieme di elementi coordinati tra loro in una unità funzionale.

Spesso siamo troppo “appiccicati” al sistema al quale apparteniamo, condizionati nelle scelte e nelle modalità espressive. Con un lavoro di costellazione possiamo provare, non solo a “vedere” come il nostro sistema di appartenenza è strutturato, se la sua forma è funzionale per la persona che vi appartiene, ma anche osservare se la posizione che occupiamo, è per noi, fonte di energia costruttiva o limitante per il nostro sviluppo e crescita personale e da li valutare se cambiare il nostro comportamento rispetto a quagli automatismi comportamentali condizionati dal sistema stesso.

A volte è come se fossimo dentro un meccanismo che ci porta ad essere ripetitivi, a sviluppare degli automatismi comportamentali, in una modalità che non ci appartiene del tutto, ma che fa parte del sistema in cui siamo “immersi”, per esempio, come quello familiare, uno dei più condizionanti.

Condotto da: Fabio Cieri ( Psicologo, Psicoterapeuta, Formatore)

Venerdì 13 set. ore 18:30

Vasto (ch)

NECESSARIA LA PRENOTAZIONE, POSTI LIMITATI

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